19S La terra trema ancora!


“No mamma, non ti preoccupare, qua non arrivano gli uragani, di solito toccano terra e diventano tormente tropicali”.
“Si lo so ma fai attenzione”.
“Tranquilla, poi qua siamo a 2.250 metri, è impossibile”.

Mi gira la testa, “Cos’è” penso. No, non è la testa che gira, è il pavimento che si muove.

“Cazzo, cazzo, cazzo!”
“Michael cos…”

Boom! Un rumore estraneo alla mia lista di rumori conosciuti e la comunicazione si interrompe.

È il 19 settembre 2017 e sto parlando al telefono con mia mamma quando alle 13:14:40, le 20:14:40 in Italia, la terra si rompe a 57 km di profondità sotto Axochiapan, Morelos. 120 km più a sud rispetto a dove si interrompe quella telefonata e la vita di oltre 300 persone.

“Se va a caer todooooo”.
“Tranquila, no pasa nada”.

Non pensavo nessuna di quelle quattro parole, ma erano le uniche che potevo dire in quel momento.

“No es posible, se va a caer todo”.
“Tú tranquila, ya va a terminar”.

Il rumore che si sente durante un terremoto è una delle cose più terribili che abbia mai dovuto vivere. È difficile da spiegare. È il rumore della terra, è la sua voce che si libera da anni, secoli o millenni di prigionia, e nessuno può dire qualcosa di bello dopo anni di costrizione. Alcuni dicono sia un rumore sordo, per me è il rumore della paura, dei vetri che si rompono, delle persone che urlano e piangono, dei muri che si aprono, ma è soprattutto il rumore di qualcosa che ti si rompe dentro.

Stock e poi un fischio simile a quello che si sente nei film quando muore qualcuno e il medico si gira verso l’elettrocardiogramma che mostra una linea completamente piatta. Poi è come se stessi sott’acqua. Tutto quello che arriva alle tue orecchie ha un suono ovattato.

“Salimos ya, no podemos esperar un segundo más. ¡Toma lo básico y vámonos de aquí!”

Così mollo la presa dalla mia coinquilina che ho tenuto abbracciata sotto il tavolo per quasi tutta la durata del terremoto. Solo dopo ho scoperto che non sarebbe servito a nulla stare sotto il tavolo.

Casa mia è esattamente quello che mi sarei aspettato dopo quel movimento innaturale, o forse la cosa innaturale è che giusto lì ci fosse una casa, un quartiere, una intera città con 15 o 20 milioni di abitanti, dipende dal giorno e dall’ora.

Per strada la gente è incredula, ci giriamo intorno e nella nostra via non si vedono danni gravi. Crepe nelle case, qualche vetro rotto, ma le case sono lì. Ci guardiamo negli occhi e possiamo leggere solo paura. È il quinto terremoto che vivo in questa città, la gente è abituata. Pure io ho imparato ad abituarmi. Quando la terra smette di tremare si prende il telefono, si avvisa che si sta bene e poi si va su Twitter a leggere i meme. Oggi però nessuno ha voglia di scherzare. Sappiamo che è successo qualcosa di grave.

Voglio contattare mia madre ma non c’è linea. Nella strada più grande a due isolati da dove sono io la gente inizia a correre urlando e piangendo. Guardo i vicini di casa e gli dico che sento odore di gas. Qualcuno inizia a dire che sono cadute casa su Reforma. Altri dicono che sono cadute nella Roma e altri dicono proprio nella Condesa, il nostro quartiere.

“Dobbiamo andarcene” dico alla mia coinquilina “Andiamo verso Parque México, là staremo più al sicuro e ci sapranno dare più notizie”.

Le voci erano vere. C’è bastato fare qualche centinaio di metri per vedere il disastro che aveva causato quella rottura della terra a poco più di cento chilometri da dove eravamo noi.

Riesco a comunicare con alcuni amici, do appuntamento a una di loro sotto casa sua, riesco a scrivere a mia mamma che nel frattempo non sapeva più nulla di me.

“Cosa è successo?”
“Terremoto. Già sono fuori ma è stato fortissimo. Sono cadute case”
“Vicino a te?”
“Sì. Questo è stato terribile”
“Fammi sapere, ma mettiti al sicuro”

“Michael Linus está arriba” mi dice la mia amica. Linus è il suo cane ed era solo nell’appartamento al sesto piano di quattordici. “Ok, subimos rápidos” le dico. Incoscienti, stupidi, ma soprattutto fortunati. In casa alcuni muri erano crollati. La mia amica inizia a piangere. Le dico di muoversi e scendiamo con il cane.

“Serve acqua in Laredo con Amsterdam. Acqua, medicinali, secchi.”
“Cosa è successo?” Chiediamo.
“È crollato un palazzo di 7 piani e ci sono ancora persone dentro”.

Non puoi essere preparato per certe cose. Nessuno può esserlo. E la cosa peggiore è che a parte dell’impreparazione, del cervello che va in stand by con la scritta “E ora, cosa facciamo?” c’è la paura. Bastarda, non aspettava altro. Non aspettava altro che un momento di debolezza e confusione per uscire allo scoperto e corrompere le ultime decisioni lucide che puoi prendere. Paura, ma non solitudine. Siamo migliaia nella stessa situazione e insieme la ricacciamo da dove è venuta sta stronza.

Quello che è successo dopo non posso raccontarlo troppo liberamente. Purtroppo in certe situazioni il bene e il male lasciano il posto ad altri istinti primordiali, così come giusto e sbagliato e con loro il legale e l’illegale.

In certi momenti esiste solo la necessità di aiutare persone che avevano bisogno di aiuto, e quelle persone stavano sotto tonnellate di macerie.

Servivano mani che togliessero pietre, serviva cibo, acqua, materiali vari e medicine. Non importa a che prezzo.

Senza guanti, senza protezioni, senza nulla ma con un cuore enorme migliaia di persone erano lì a fare la loro parte, senza la necessità di essere eroi. In quel momento non c’era bisogno di eroi, ma di solidarietà. E in quel momento la classe più criticata della storia, i millennials nullafacenti, hanno dimostrato e abbiamo dimostrato che non importa di che nazionalità fossimo, il colore della pelle, la lingua, la cultura. Nulla di tutto ciò importava più. Solo importava aiutare. Nella colonia in cui vivo io ci sono moltissimi stranieri, tra cui io, e non importava che il paese fosse nostro o meno.

Parlare poi del cuore dei messicani potrebbe essere superfluo, ma in questi casi non lo è. Seppur con tutti i limiti del caso, è un popolo che non ci penserebbe due volte a gettarsi in mare per salvare una persona, anche senza saper nuotare. E questo è quello che è successo. Per giorni, per settimane, e che ancora continua oggi dopo 3 settimane.

Le persone hanno dato i primi aiuti e poi anche i secondi e i terzi. Là dove sarebbero dovute intervenire le istituzioni, mani normali di tutti i colori hanno aiutato e messo una pezza alle deficienze di questa realtà. Là dove la politica ha fatto appello alle leggi per proteggere i finanziamenti pubblici le persone non c’hanno pensato due volte a donare tutto ciò che potevano.

È diventata famosa la scena di una donna anziana che vestita nella maniera più umile del mondo, donava quello che poteva. Lei sarebbe stata la prima ad averne bisogno. Si vedeva che era una di quelle persona che vive al limite della povertà. Ma non le è importato, perché anche nella povertà aveva più di altri che nel giro di qualche secondo hanno perso tutto quello che avevano.

Ovviamente si sono pure verificati episodi che non vorremmo sentire mai, figuriamoci durante un disastro naturale. “Persone” che hanno approfittato del caos per rubare in casa di chi per paura ha deciso di passare qualche notte fuori. C’è chi ha approfittato del buio nelle strade per rubare le poche cose che le persone sono riuscite a portare con sé nei pochi secondi di lucidità prima di abbandonare casa, o il proprio ufficio.

Purtroppo dobbiamo vivere con tutto questo. Anche questa è l’umanità che abbiamo creato e di cui tutti noi siamo responsabili. Siamo figli dei social, per cui è lì che molti influences, instagramers o youtubers hanno cercato la gloria. Ma questo si può risolvere con un semplice “a ciascuno il suo”. A volte la categoria di essere umano include decisamente troppi generi di spazzatura, non importa che essi abbiano come arma una pistola, un coltello, uno smartphone o una giacca con un adesivo di un partito politico e qualche pila di fogli che chiamano leggi.

Per quanto riguarda me, sono riuscito a tornare a casa mia solo dopo una settimana di latitanza. La paura di tornare nel posto in cui è iniziato tutto è stata (e tutt’ora lo è in parte) difficile da superare. Nella tragedia posso solo ringraziare che non sia successo a me, e che per quanto il terremoto abbia creato danni e disagi in casa mia, lei sia ancora lì.

3 settimane dopo la situazione nella mia colonia è ancora in stand by. La gente per strada fatica a sorridere. Molti hanno deciso di abbandonare la zona, una delle più colpite dal sisma. Molte case sono ancora vuote. Alcune per paura, altre perché in attesa di essere ristrutturate. Altre ancora rimarranno vuote finché non verranno smantellate per l’impossibilità di essere riparate.

La terra si è mossa ancora una volta. L’ironia del destino ha voluto che fosse lo stesso giorno dell’altro terremoto grande che ha distrutto la città giusto 32 anni fa.

Quello che rimane ora è ancora un certo grado di incredulità. Che sia successo ancora. Che sia toccato a me. Siamo sempre convinti che non succeda mai a noi. Forse è per quello che non è così semplice accettare di aver ancora paura, di sentire l’allerta sismica ovunque anche quando il silenzio è totale, di sentire che la terra si muova anche quando tutto sta al proprio posto.

Tutto tranne quella piccola cosa che si è spezzata dentro nell’esatto momento in cui la terra si è rotta a 57 km di profondità sotto Axochiapan, Morelos. 120 km più a sud rispetto a dove si interrompe quella telefonata con mia mamma e la vita di oltre 300 persone.

 
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